LILÍT E ALTRI RACCONTI
LILÍT E ALTRI RACCONTI
Primo Levi non ha mai smesso di raccontare Auschwitz: il che, nel suo caso, ha sempre significato smontare l’ingranaggio dello sterminio per ragionarci sopra nell’atto stesso di descriverlo. Non ha mai smesso, anche se a un certo momento si è lasciato sfuggire una dichiarazione lapidaria: «Più niente. Quello che dovevo dire l’ho detto tutto. Completamente finito». Succedeva nella seconda metà degli anni Sessanta, appena uscite quelle Storie naturali – storie di scapicollata immaginazione tecnica e morale – che lui considerava un «ritorno alla realtà», un modo per sottrarsi al ruolo unico del testimone. Eppure, non tutto quadrava: né in lui, né in quelle storie, né nella Storia con la esse grande. Se quest’ultima già preparava nuove minacce, non si poteva certo dire che in quei suoi racconti (che forse erano anche di fantascienza) del lager non ci fosse traccia. La verità è che in Primo Levi non è possibile separare il «Futuro anteriore» dal «Passato prossimo», né tantomeno fare barriera fra questi due tempi e il «Presente indicativo» in cui tutti viviamo. Ce lo dice chiaro e tondo la struttura di questo Lilít, 1981, le cui tre sezioni s’intitolano appunto così; ma sono contenitori dalle pareti permeabili, e se c’è un contenuto che dilaga ovunque è proprio il «Passato prossimo», che apre la raccolta con l’impatto di dodici episodi legati alla Shoah: dodici ritratti di individui in azione, dodici sequenze in primissimo piano o a figura intera.
Domenico Scarpa