L'ALTRUI MESTIERE
L'ALTRUI MESTIERE
Quando apparvero in America i Complete Works di Primo Levi (era il 2015), di fronte alla varietà di quelle quasi tremila pagine in tre volumi molti recensori spesero l’aggettivo «leonardesco». Non era entusiasmo facilone e turistico: a quel punto infatti, e a livello internazionale, tutte le facce del prisma Levi risultavano illuminate, e su una in particolare – L’altrui mestiere – sembravano concentrarsi le luci di tutte le altre. Ci aveva già pensato Calvino, d’altronde, a dire che Levi possiede una «vena d’enciclopedista dalle curiosità agili e minuziose e di moralista d’una morale che parte sempre dall’osservazione»: così Calvino presentava, nel 1985 e su «Repubblica», questi 51 saggi brevi usciti in massima parte sulla «Stampa». E qui vale la pena di fare un inventario dei temi, perché ci condurrà al cuore del libro. Il lager? Soltanto in due testi e di sfuggita, ma è memorabile l’incipit del brano di apertura La mia casa: «Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato»: un guizzo sopraffino d’ironia al principio di un’autobiografia eccentrica, come eccentrici sono gli elementi autobiografici presenti in 19 dei testi (e in 7 compare Torino). Anche le radici ebraiche affiorano in due scritti soltanto, ma memorabili: Il rito e il riso e La miglior merce. Di scienza e di tecnica si discute in 11 articoli, più di quanti ne siano dedicati al lavoro (7) o alla chimica (6). Ma non per niente il libro s’intitola L’altrui mestiere: fra gli argomenti-sconfinamenti più rappresentati troviamo i giochi (8 scritti) e la letteratura (10), ma i temi dominanti sono gli animali (11) e il linguaggio (18), e anche qui soccorre Calvino: «Qualche volta si direbbe che Levi tenda a fondere le due passioni in una glottologia zoologica o in una etologia del linguaggio».
Domenico Scarpa